sabato 17 maggio 2014

La vocazione di Eva


La vocazione di Eva
Cronaca dello spettacolo teatrale “Donne Fatali”
Rappresentato all’Auditorium di Bracciano l’8 marzo 2014


Fiat mihi secundum verbum tuum. Di tutte le cose importanti che possono succedere nella vita, la più importante, quella che illumina e spiega tutte le altre è, senza dubbio, la vocazione, cioè la scoperta del senso della nostra vita, dell'oggetto della nostra esistenza". (Federico Suàrez - Maria di Nazaret)



L'Auditorium di Bracciano è appollaiato sul declivio (via delle ferriere) che dalle falde del Castello Odescalchi, scivola verso il bacino lacustre. Il luogo è accogliente e i suoi cento posti permettono la realizzazione di piccoli eventi anche se, dal punto di vista culturale, alcuni possono essere definiti grandi. 

Lo spettacolo "Donne Fatali", rappresentato l'otto marzo 2014, è proprio uno di questi eventi. Comunque la platea che dà l'occhio del "tutto esaurito" procura un certo piacere vederla, oltre ad essere sufficiente per decretare il successo organizzativo dell’evento.


Sono arrivato con la troupe artistica qualche ora prima dell'orario programmato per lo spettacolo; il cielo nuvoloso mi ricordava quel “sapore di una giornata uggiosa", che cantava Lucio Battisti qualche tempo fa. All’interno dell’Auditorium le attrici, Giuliana e Benedetta, scaldavano voce, corpo e mente, per arrivare in scena ben concentrate; anche l'unico attore Gianpiero si scaldava. La regista, (Marina Garroni), e l'autrice dei testi, (Biancamaria Alberi), davano le ultime indicazioni ai tecnici e alle attrici per ottimizzare la messa in scena. Un’indicazione me la sono beccata anch'io: dovevo stare retropalco per i cambi di scena; le attrici non avevano molto tempo per il cambio dei personaggi e la mia presenza avrebbe rassicurato in caso d’imprevisti. Ho rassicurato la regista ma non volevo rinunciare allo spettacolo; ho quindi predisposto una sedia all'uscita laterale del retropalco attaccato quasi al proscenio; mi sono auto-nominato "facilitatore di retropalco".

1 - Buio in sala; inizia lo spettacolo; s'illumina lo schermo posto in alto, in fondo alla scena; e appare una scritta che introduce il personaggio mitico di Antigone, la giovane eroina che sceglie di essere murata viva nella tomba, piuttosto che rinunciare a onorare la morte del fratello. Un verso efficace che riassume in pochi fonemi lo stato tragico può essere: "Mi hanno giudicata empia / per un atto di pietà."

Voci registrate declamano versi sovrapponendosi e creando un pathos confusionale in chi ascolta; poi, un’unica voce rimane superstite a declamare i versi di Antigone: "Tomba, stanza nuziale, prigione sotterranea, mia dimora eterna, …"; Benedetta entra in scena e continua dal vivo il monologo; l'effetto in platea è efficace, l'attenzione è catturata e rimane fino alla fine. L'alternarsi delle voci registrate con quelle di scena e quello delle due attrici nel ruolo di un unico personaggio, sono state scelte vincenti. Buio. Io sono già nel retroscena. In sala il pubblico è attento e piuttosto teso verso il cambio di scena: desidera vedere il seguito. Le tragedie greche promanano un'energia capace di catturare anche il pubblico scafato del terzo millennio. 

2 - Lo schermo s'illumina e appare la scritta-prologo della seconda scena che riguarda il racconto di un "femminicidio". Le attrici entrano sul palcoscenico e prendono posto dietro a due leggii, quasi sul proscenio; leggono e recitano alternativamente una specie di diario che racconta la genesi latente e la storia palese di un femminicidio. La lettura non lascia indifferente il pubblico; la platea accosta il sacrificio di Antigone alle vittime di femminicidi che riempiono le cronache di quotidiani e rotocalchi; situazioni diverse e distanti, stesse vittime: le donne. Il sacrificio si rinnova in un rituale che mantiene intatta la forza evocativa; una forza socialmente dirompente. Il pubblico avrà da riflettere. Non aspetto il buio e corro nel retropalco; questa volta sono operativo; ho il compito di aiutare a indossare un accessorio. Tutto si svolge con qualche incertezza ma molta rapidità; l'ingresso in scena avviene con la tempestività prevista.

3 - Sullo schermo illuminato appare la scritta che introduce al monologo di un altro personaggio mitico: Medea; una donna importata a Corinto, che uccide i figli per vendicarsi del tradimento e del ripudio che subisce dal suo sposo, padre dei fanciulli. Mi permetto un inciso: il giorno successivo alla rappresentazione, un fatto di cronaca, successo nel milanese, ha confermato tutta l'attualità del mito. I miti sono il fondamento delle civiltà.

Il monologo di Medea messo in scena, non è quello famoso che riguarda l'omicidio-infanticidio, ma è quello in cui la protagonista, venuta a conoscenza dei piani dello sposo, si presenta e si appella alle donne di Corinto; e accusa l'oltraggio subito dall'amato che si appresta a ripudiarla per sposare la figlia del re e il trono regale. Significativo è il verso finale:

 "piena è la donna di paure, e timorosa

di fronte alla violenza, e al ferro;

ma se è offesa nel suo letto di sposa,

cuore non v'è più del suo, sanguinario."

Gianpiero, appare in scena e rende un Giasone - manichino annientato, che subisce le invettive e le ire di Medea, che Giuliana - Benedetta ben orchestrano sul palcoscenico. Lo sdoppiamento attoriale della protagonista contribuisce a evidenziare e a far percepire al pubblico, l'abisso che separa la donna Medea, piena di energia, di rabbia e risentimento, dall'uomo-nulla, una volta amato ma da lui tradita con la più infame delle azioni che una donna possa subire in terra straniera: il ripudio. Un uomo che si appresta a togliere i figli alla madre ripudiata, accrescendo così l'offesa, per dare successione certa al trono regale. Medea non lascia passare l'affronto e attua la più tremenda delle vendette con una strage “mitica”. Benedetta e Giuliana nelle vesti di Medea annientano Gianpiero-Giasone in scena. La donna esce vincente, sia in scena che nella tradizione del racconto mitologico. Buio. Il pubblico applaude; io corro nel retroscena; questa volta ho aspettato che finisse la scena. Mi piace il teatro; mi piace da restar rapito, fino in fondo. Tutto è filato liscio.

4 - La scritta-prologo annuncia la scena che racconta il travaglio di una profuga clandestina e del suo viaggio della speranza verso l’Italia. Il racconto è letto dalle due attrici e si snoda nelle vicende vissute in prima persona dalla profuga. Il racconto è piano e fluido quasi a ricordare gli infiniti silenzi che accompagnano i profughi nei loro viaggi della speranza. Non ci sono fasi concitate, né narrazioni orrende; tutto fila liscio e senza scosse, come una nave che solca un mare piatto di bonaccia; un mare senza movimento, senza onde. Finito il racconto resta un amaro in bocca inspiegabile, una rassegnazione a non vivere che noi, cittadini dell'opulenza, non riusciamo a comprendere. "ho capito che l'Italia non mi aveva voluto…volevano solo assicurarsi di potermi rimandare in fretta nella terra da cui ero quasi morta per andarmene". Mi sovviene il ricordo di un'altra profuga che in una lunga confessione a un prete sonnacchioso dice: 

"... in quell'istante capii anche che nessun documento rilasciato da qualsiasi paese nel mondo mi sarebbe servito, ormai non sarei più stata davvero me stessa, non avrei più avuto un'identità… Posso essere una cittadina, una contribuente fiscale, una lavoratrice… ma non più me stessa." 

(Il Sangue di San Gennaro - Sandor Marai)

Nel pensiero della spoliazione dell'essere donna mi sorprendo nel buio finale della scena. Non c'era bisogno di me dietro le quinte; sono rimasto seduto, attonito e rimbambito; ho aspettato la scena successiva senza fiatare. Il teatro ti lascia spazi per far decantare le effervescenze emotive e prepararti così a vivere la scena successiva.

5 – Appare sullo schermo la scritta: "donne che odiano altre donne" che introduce al monologo invettiva di un'altra figura mitica femminile: Elettra, contro la madre Clitennestra: "Io mi rivolgo a te: d'aver ucciso il padre mio, tu lo proclami". Questa volta, le attrici interpretano personaggi diversi: una, interpreta una Elettra energica e veemente che assalta come una furia l’altra che, senza parlare, ci restituisce una orgogliosa, impenitente e soccombente Clitennestra. L'energia profusa è quasi palpabile; l'attenzione del pubblico non cede, anzi monta in un’attesa risolutiva che solo la chiusura della scena confina nella meditazione personale. Il buio questa volta non mi sorprende e scivolo quatto quatto nel retropalco a facilitare il cambio di scena.

6 - Una scena riposante; il pubblico si vincola nelle memorie raccontate di una prostituta d'alto lignaggio; quelle che le cronache mondane chiamano "escort". Le attrici dai rispettivi leggii, si alternano nella lettura del diario intimo di una ragazza che appena laureata decide serenamente e in piena facoltà mentale di rispondere a un annuncio di casting; un annuncio acchiappafemmine per le scorticature pruriginose di vecchi facoltosi in cerca di "compagnie giovani e piacenti". Una strada in discesa verso la voragine del nulla. La prostituta sfavilla la sua femminilità nel vortice dei meeting, delle vacanze di lusso e della droga facile; finisce in una clinica per disintossicarsi e, dopo un periodo di depressione, riscopre la sicurezza degli affetti famigliari che la fanno sentire inaspettatamente libera; "una sensazione bellissima" che le dà il coraggio e la forza di "ricominciare". Il pubblico ha ascoltato con attenzione il racconto, letto con intensità drammatica dalle attrici e, sicuramente, qualcuno avrà fatto due più due riconsiderando le notizie di cronaca rosa e nera che si ammassano sui rotocalchi; forse una nuova luce avrà illuminato le menti smontando i luoghi comuni delle chiacchiere mediatiche sulle prostitute d'escort…azione. Corro nel retropalco (o retroscena, o dietro le quinte) prima del buio; c'è bisogno di me... ed io mi sento importante. 

7 - Giuliana irrompe in scena passando dalla platea e raccontando con veemenza "La ferocia delle donne ai tempi delle amazzoni". Benedetta continua il racconto in scena e il pubblico non può fare a meno di aumentare l'attenzione. L'irruenza del racconto, il ritmo e il profluvio di parole, che si accavallano nella mente,  costringono lo spettatore a rielaborare ciò che ascolta con pathos emozionale; non c'è scampo, tutta la platea partecipa al racconto anche se le uniche voci che si sentono sono quelle delle due attrici. E' un montare emotivo che coinvolge tutti. Il finale cruento che vede soccombente il povero Achille, "il più sventurato dei mortali", trafitto dalla freccia dell’amata, sbranato dai cani e dalla stessa sposa, Pentesilea. Meroe, che racconta, finisce con la frase: "quando arrivai io, dalle mani e dalla bocca le grondava sangue". Il pubblico rimane zittito, forse confuso, fino alla frase di chiusura della scena: “Se mi avete sentito, donne, parlate datemi un segno che siete vive." Gli applausi liberatori scrosciano in platea. Buio. Questa volta corro nel retropalco, ma solo per congratularmi con le attrici; sono state bravissime. 

8 - Frasi lunghissime e complicate introducono la scena successiva; a me, e forse anche al pubblico, resta fissata solo la frase finale "perché a volte capita che si possa superare l'orrore della morte ma non quello di una vita arresa ad un povero presente." La scritta in calce ci dice che l'autrice della frase è Barbara Balzerani (una terrorista dei nostri tempi). Il monologo è interpretato dall'unico attore maschio. A Gianpiero dunque il grave e grande compito di rappresentante unico del sesso… debole e/o forte; dipende solo dai punti di vista.

Per me il discorso diventa particolarmente sensibile; perché mi sento coinvolto in quello che Gianpiero racconta. Ho anch'io una storia personale che, in qualche modo, s'intreccia con quanto raccontato; sento montare in me la coscienza di una presenza attiva in quello che si dice. Affiora tra le nebbie del tempo, la memoria di situazioni personalmente vissute un decennio prima (del tempo del racconto). Questo non mi distrae, anzi, fa salire la mia attenzione; anche se solo per scoprire quanto il mio vissuto valga la finzione. 

Gianpiero, nelle vesti di un amico e compagno di studi della terrorista, racconta che leggendo "la notizia della scarcerazione di Maria Stella", si è sentito "spiazzato"; la stessa sensazione che provò anni prima, ai tempi in cui frequentando l'università, apprese dai giornali la notizia dell'arresto della sua "grande amica oltre che impareggiabile compagna di studi". 

Gianpiero solca il palco con sicurezza e continua il racconto dei suoi "spiazzamenti", delle sue delusioni e delle conquistate aspirazioni. Nel raccontare sembra cerchi di spiegare e giustificare la scelta malandrina della sua amica terrorista; come a evidenziare e far pesare la presunta "buona fede" e l'illusione intellettuale di chi sceglie la strada del terrore per sbarazzarsi del marciume che sente asfissiante. Il paragone tra le scelte "democratiche" del narratore e quelle "terroristiche" della “grande amica” narrata, non lascia soluzioni; semmai evidenzia confronti, illusioni, delusioni, rassegnazione; e forse, una velata nostalgia per quei tempi ormai lontani, abbandonati alla memoria irrisolti; rimossi direbbe Freud. 

La frase prologo "a volte capita che si possa superare l'orrore della morte ma non quello di una vita arresa ad un povero presente.", prende forma e consistenza in scena. La scelta terrorista di Maria Stella è tutta in questa frase. Una donna, nel pieno delle sue facoltà, nello splendore della sua femminilità, pronta per scegliere e a essere scelta, decide invece di affrontare e superare l'orrore della morte piuttosto che arrendersi a un povero presente. Al contrario, Gianpiero rappresenta la rassegnata delusione di chi è stato abbandonato dai sogni e ha scelto di continuare la sua piatta vita democratica. Una vita "arresa ad un povero presente"; i sentieri si biforcano: lei terrorista violenta e intransigente, lui cittadino democratico, modello di perbenismo.

Gianpiero rende bene la sofferenza, i dubbi dell'amico abbandonato e rifiutato dalla sua "grande amica" terrorista. La scelta che lui ha fatto (di una vita tranquilla), è ciò che la sua amica ha radicalmente rifiutato. La laurea, il lavoro e il matrimonio, non sono categorie accettabili per una terrorista. Gianpiero trasmette questa incertezza del personaggio, questo tremore intellettuale che è segno indubitabile di una latente insicurezza, insita in ogni scelta di vita tranquilla; tranquilla solo in apparenza. Pirandello fa capolino dalle quinte di questo teatro. Giampiero, con questo personaggio porta in scena "uno, nessuno e centomila" uomini tranquilli come l'amico della terrorista o come il Vitangelo Moscarda del romanzo di Pirandello. Uomini che hanno smarrito la cognizione del proprio essere e si riflettono, si ritrovano e non si riconoscono nei centomila ruoli che gli altri vedono in loro. Il rammarico dell'uomo "democratico" e l'amarezza per non aver potuto rapportarsi alla pari con la sua "grande amica", ormai ex-terrorista, trapelano da una frase pronunciata dopo l'ennesimo rifiuto: "Alla fine mi ero “arreso” all'evidenza; non l'avrei più vista ed era inutile continuare ad insistere." … appunto, la sua è una vita “arresa” ad un povero presente.

Ma la tranquillità nasconde l’irrequietezza; infatti, non è vero niente; perché inaspettatamente, in chiusura di scena, lo stesso personaggio si rimangia tutto e dice: "Andrò a cercarla, e se di nuovo, lei non vorrà parlarmi, mi accontenterò di vederla anche un solo momento." Sarà vero? Quest'ultimo voltafaccia sembra riabilitare le ragioni "sbagliate" della terrorista. La donna è anche qui pronta a scegliere soluzioni "contro" le ragioni del buon senso, per obbedire agli istinti primordiali di libertà; fino a uccidere, fino a morirne. Buio.

Applausi a scroscio ed io del retropalco guadagno l'uscio; per abbracciare la mia donna… ancora una volta, forse per sempre; forse anche dopo la chiusura del grande sipario. Chissà chi ci sarà ad aspettarmi; forse ci sarà bisogno di me anche lì, nel retropalco del mondo.

Questa sera, all’Auditorium di Bracciano è andata in scena metà della mia vita; l’altra metà era seduta in platea; ai margini del proscenio; proprio di fronte all’uscita laterale del retropalco.

Non so qual’è la mia vocazione, so solo che adesso Eva è qui, al mio fianco e questo mi basta; intanto l'auto solca la notte per il ritorno a casa, la nostra casa.

karsaf


giovedì 10 aprile 2014

Anna Karenina (2012).Dancing Scene

Il portale sulla letteratura di Rai Educational

Il portale sulla letteratura di Rai Educational

Una parola, una frase, un rigo appena.
(Manuel Puig)

Che cos’è la letteratura?
A Dolorès

Se volete impegnarvi” scrive un giovane imbecille “che cosa aspettatea iscrivervi al P. C. ?” Un grande scrittore che si è spesso impegnato e, ancor più spesso, disimpegnato, ma se ne è dimenticato, mi dice: “gli artisti peggiori sono quelli più impegnati: guardate i pittori sovietici.” Un vecchio critico piagnucola: “Voi volete assassinare la letteratura; nella vostra rivista il disprezzo per le Belle Lettere è ostentato in modo insolente.” Un poverino dice che sono una testa dura, che per lui è evidentemente una delle peggiori ingiurie; un autore che fece fatica a trascinarsi da una guerra all’altra, e il cui nome risveglia talvolta languidi ricordi nei vegliardi, mi rimprovera di non curarmi dell’immortalità: lui conosce, grazie a Dio, tanta gente per bene per la quale l’immortalità è la principale speranza. Agli occhi di un gazzettiere americano il mio torto è di non aver mai letto né Bergson né Freud; quanto a Flaubert, che non s’impegnò, sembra che mi perseguiti come un rimorso. I furbi strizzano l’occhio. “E la poesia? E la pittura? E la musica? Volete impegnare anche quelle?” I tipi decisi chiedono: “Di che si tratta? Della letteratura impegnata? Ma allora è il vecchio realismo socialista, a meno che non si tratti di un rifiorire di populismo, per di più aggressivo. Quante sciocchezze! Il fatto è che si legge in fretta e male, e che si giudica prima d’aver capito. Quindi ricominciamo. (…/…)

E’ l’incipit del saggio di Jean-Paul Sartre : Che cos’è la letteratura? Un saggio ricco di proposte e d’interpretazioni, anche suggestive. Scritto nel 1947, negli anni più duri della polemica tra l’Occidente e l’Oriente, polemica che sfociò nel mare magnum della “guerra fredda”, il saggio ne sintetizza ampiamente i motivi, sollevandoli di peso dal livore di parte: attualizzati, essi appaiono ancora pienamente degni di riflessione. Il pensiero sartriano resta ancor oggi il manifesto, il testo base, la definizione, della letteratura “impegnata”.

Confrontando l'intervista di Magris e il testo di Sartre ci si imbatte in due approcci al concetto di letteratura completamente agli antipodi; mentre Magris espone ciò che per lui è la letteratura, Sartre espone ciò che per lui non è letteratura. Tra le due esposizioni c'è il mondo; è questo "mondo" ciò che io intendo per letteratura. Un "mondo" espresso efficacemente in un prologo di J. L. Borges ad un suo componimento:


A chi mai leggerà
Se le pagine di questo libro consentono qualche verso felice, mi perdoni il lettore, la scortesia di averle usurpate io, previamente. I nostri nulla differiscono di poco; è banale e fortuita la circostanza che sia tu il lettore di questi esercizi, ed io il loro estensore.

Anche Papa Francesco (Bergoglio) in un suo discorso durante la sua visita in Brasile ha fermato un concetto di letteratura vincolato al presente vissuto (e alla storia) con questa frase:


“Memoria del passato e utopia verso il futuro si incontrano nel presente, che non è una congiuntura senza storia e senza promessa, ma un momento nel tempo, una sfida per raccogliere saggezza e saperla proiettare.” (Franciscus – Brasile 2013)

In questo nuovo respiro concettuale, possiamo "ricominciare" (come ha scritto Sartre) a definire "che cos'è la letteratura".

Magris, nella presentazione del suo libro e Sartre nel suo scritto non sono riusciti a far passare un messaggio chiaro per definire la letteratura; così come, invece, Borges e Bergoglio son riusciti a fare in una frase. 




lunedì 3 marzo 2014

Beautiful scene. The desire of Anna Karenina explodes in a blind whirl dancing with Vronsky, the husband of the princess candidate, his nephew. Kitty keeps his humiliating defeat and despair, slips on his lost dream, with a final dance step.

http://youtu.be/TOwsZ6bDqJU 
Il desiderio di Anna e l'umiliazione di Kitty

lunedì 3 febbraio 2014

The moon - PIXAR (La luna) full



Già l'avevo visto tempo fa e l'estasi della visione non mi aveva consentito
di pensare e/o di fare altro; sublime era forse il termine che più si
avvicinava a definire una valutazione d'acchito del il film. Oggi, dopo
svariati mesi, sono rimasto colpito dall'effetto evocativo delle
immagini: la luna sorgente versus il sole dell'avvenire; la scala versus
il sogno di Giacobbe; i dialoghi in grammelot versus l'arte recitativa
degli attori che, "con un apparente discorso che si snoda in una rapida e
disinvolta successione di suoni"(Treccani), esaltano mimica, sonorità e
intonazione, ovvero la parola diventa musica. La poesia di questo film
continua a stupirmi.

domenica 26 gennaio 2014

La confessione di una profuga



Sono una profuga e comincio a capire che, quando si lascia una patria, si lasciano tutte le patrie possibili. Quello che noi profughi riceviamo per attestare la nostra identità, è solo un documento; di qua o di là, in qualsiasi angolo del mondo, la nostra identità è solo un documento. La spoliazione che subiamo non ci toglie di dosso soltanto la vera identità - non quella di un freddo e anonimo pezzo di carta - ma ci toglie anche tutto quello che gli uomini chiamano patria, in qualsiasi epoca. Lo capiamo solo lentamente.

Attraversiamo paesi che ci é  consentito attraversare, in ognuno di essi ci spogliamo di qualcosa e, via via sempre più nudi e con minor bagaglio,  andiamo avanti. Nel vero senso della parola, quello che possediamo non fa che diminuire. Questa spoliazione, Dio mio… Portiamo con noi tutto quello che abbiamo, con un attaccamento maniacale. 

Una volta però, in Francia, dove un giorno approdammo - ci avevano concesso di attraversare il paese - prima di riprendere il nostro viaggio… mi accorsi che da anni mi portavo dietro un sacchetto di carta vuoto, un sacchetto su cui avevo segnato il nome e l'indirizzo della mia modista… Era tutto sgualcito, uno di quei sacchetti che si usano per incartare le merci, e chissà dov'era ormai il cappello che un tempo aveva contenuto, così come d'altronde non esisteva più neanche il negozio di modista il cui indirizzo si leggeva sulla carta, e forse non vivevano più né la proprietaria del negozio, né molte delle clienti che dovevano aver comprato i loro cappellini in quel negozio… 

Eppure, quando nel transitare da un paese all'altro, da un'emigrazione all'altra, trovai sul fondo di una valigia quel sacchetto di carta del mio paese, accuratamente ripiegato, provai una strana quiete, come se finalmente, dopo tanta insicurezza e tanto vagare, dopo tanti tentativi, avessi in mano qualcosa di davvero tangibile, di affidabile, a cui potermi aggrappare nei giorni che mi restavano da vivere, nella parte di viaggio ancora da affrontare.

Non si trattò di un attacco di sentimentalismo, padre… Non fu un soprassalto di commozione, come quando ci capita in mano, in un paese straniero, un oggetto familiare proveniente dalla nostra patria. Non piansi, come un esule che guarda vecchie fotografie… 

La cosa strana era quella sensazione di quiete, di sicurezza, come se avessi in mano la prova inconfutabile e decisiva di essere esistita un tempo… Ma in quell'istante capii anche che nessun documento rilasciato da qualsiasi paese nel mondo mi sarebbe servito, ormai non sarei più stata davvero me stessa, non avrei più avuto un'identità… Posso essere una cittadina, una contribuente fiscale, una lavoratrice… ma non più me stessa.

Ecco come avanza la nostra spoliazione.


Tratto da: Il Sangue di San Gennaro di Sandor Marai 

martedì 14 gennaio 2014

Cultura Lutti e memoria - La memoria affettiva e la sua rappresentazione condizionata - RagusaNews

Cultura Lutti e memoria - La memoria affettiva e la sua rappresentazione condizionata - RagusaNews

Il rapporto con una persona amata, non si interrompe e non si può rappresentare, è un sentimento prezioso che abita dentro di noi e fa vivere la persona: finché quel sentimento vive in noi. Sotto i monumenti di pregiato marmo: non c’è niente di quanto cerchiamo.  Le esteriorità opulente del lutto, non sono misura d’amore o di affetto verso chi non c’è più.