martedì 29 ottobre 2013

Barcarolle - Anna Netrebko & Elina Garanca - Offenbach Barcarola

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giovedì 24 ottobre 2013

Il fango dei guardiani delle porte

Il fango dei guardiani delle porte

Michelle Bonev contro il sistema della menzogna per la verità. Uno sfogo verso chi l'ha attratta nelle porte del potere costringendola a prostituirsi mentalmente e fisicamente. Un atto di coraggio contro la menzogna e le mezze verità.

sabato 1 giugno 2013

La verità “nel” testo: l’ermeneutica realista di René Girard

 

Forum della rivista di filosofia

ACTA PHILOSOPHICA

Brani tratti dalla relazione di Marco Porta 

La verità “nel” testo: l’ermeneutica realista di René Girard


«Il romanzo è il luogo della più profonda verità esistenziale e sociale del XIX secolo»[1]. Questa perentoria affermazione mostra emblematicamente, a mio avviso, il peculiare approccio interpretativo che contraddistingue l’analisi girardiana dei testi letterari, dalla tragedia greca ai romanzi moderni, alla letteratura mitologica: un realismo ermeneutico non privo di implicazioni filosofiche. Come è noto, lo studioso franco-americano sostiene che i grandi letterati (Cervantes, Shakespeare, Sthendal, Flaubert, Dostoevskij, Proust) smentiscono l’illusione “romantica” dell’assoluta originalità e autonomia del desiderio umano e ne mostrano invece la natura mimetica. Mentre l’appetito si rivolge ai beni necessari alla vita ed è immediato e rettilineo, il desiderio si rivolge in grande misura agli oggetti che gli altri desiderano o posseggono. In questo senso il desiderio è mediato, triangolare, è appunto imitativo: si desidera qualcosa perché si vuole essere come l’altro, cioè il parente, l’amico, il vicino, il collega, ecc. La convergenza dei due desideri (dell’imitatore e del modello) sullo stesso oggetto fa sì che il modello si trasformi quasi inevitabilmente in rivale. Sorgono così la competizione e la conflittualità che iniettano nelle relazioni sociali una miscela esplosiva di sentimenti e di atteggiamenti (invidia, gelosia, risentimento, emulazione), destinata a far scoppiare l’aggressività violenta dei singoli e delle comunità, come testimoniano ampiamente la storia e la cronaca.
Lungo tutto l’arco della sua ricerca, Girard ha privilegiato un approccio decisamente realistico, senza concedere eccessiva importanza alle distinzioni tra significati e significanti, tra denotazioni e connotazioni, per attingere direttamente il “referente” (la verità oggettuale): in questo caso una verità antropologica di portata universale, in grado di spiegare comportamenti come lo snobismo, la dipendenza dalle mode, i delitti passionali, o patologie psichiatriche come il sadismo, il masochismo, l’anoressia, la bulimia. L’approccio di Girard contrastava nettamente con le teorie linguistiche della semiologia post-strutturalista, che negli anni Sessanta e Settanta furoreggiavano nell’ambito della critica letteraria, soffermando l’attenzione sulle funanboliche e proteiformi potenzialità semantiche del linguaggio, e disinteressandosi con scettica noncuranza della sua funzione referenziale-veritativa. “Il faut tuer le référent” dicevano scherzosamente Barthes ed Eco a metà degli anni Sessanta. In perfetta coerenza con questa “teoresi”, Eco diede forma letteraria, nel suo noto best-seller Il nome della rosa, a quello che Guido Sommavilla definì un “allegro nominalismo nichilistico”[2].
 Con il suo robusto realismo ermeneutico Girard è entrato fin dall’inizio in rotta di collisione con la tendenza relativista e scettica della cosiddetta postmodernità filosofica, allergica alle istanze “veritative”, soprattutto se di genere metafisico e religioso. Specialmente in Francia, nelle ultime decadi del XX secolo, la filosofia analitica del linguaggio, l’ermeneutica heideggeriana, la semiologia post-strutturalista, le teorie psicanalitiche, sono confluite in una corrente filosofica che sembra attuare il progetto nichilistico abbozzato da Nietzsche in un celebre appunto del 1884, per la composizione della quarta parte dello Zarathustra: «Noi facciamo un esperimento con la verità! Forse l’umanità andrà perduta! Ebbene, così sia!»[4]. Nell’introduzione alla raccolta di saggi pubblicati con l’eloquente titolo La voce inascoltata della realtà, Girard tiene a precisare che i suoi scritti «non riflettono le mode chiassose dell’ultimo scorcio di secolo, le diverse reincarnazioni della cosiddetta French theory che, negli anni della loro composizione, dominava la scena delle università americane… Tutte queste teorie consistevano in una distruzione illusoria della realtà»[5]. Autori come Lyotard, Foucalt, Derrida, Baudrillard, Deleuze, Guattari, benché molto diversi per interessi tematici e proposte teoretiche, convergono nel problematizzare la presa conoscitiva del linguaggio e condividono una posizione filosofica antifondazionista. Ma anche fuori dalla Francia i “postmoderni”, ad esempio Rorty negli Stati Uniti e Vattimo in Italia, assegnano alla filosofia il compito di decostruire le pretenziose “metanarrazioni” dei pensieri “forti” del passato, per sostituirvi uno spazio retorico dove possano incontrarsi e coesistere tutte le differenze culturali: una sorta di conversazione dove la political correctness impone di sacrificare i giudizi di verità e di valore all’esigenza di trovare un consenso amichevole fra le parti. Come afferma Vattimo, contraddicendo Platone e Aristotele, “amica veritas, sed magis amicus Plato”.
Un’ulteriore provocazione allo scetticismo postmoderno è venuta dall’interpretazione girardiana del sacro arcaico come risoluzione della violenza mimetica e dalla sua conseguente teoria del religioso come origine della cultura e delle istituzioni sociali. Non per nulla l’accademico di Stanford tiene a ribadire che «da un punto di vista filosofico si dovrebbero sempre sottolineare gli aspetti realistici della mia teoria. L’intera prospettiva sulla mitologia contenuta nella mia teoria rappresenta una vera rivoluzione nell'atteggiamento verso il realismo tipico delle discipline umanistiche del XX secolo»[6]. Indagato infatti senza i pregiudizi e le eccessive cautele di derivazione relativista, il vasto universo mitologico ha potuto svelare nell’analisi girardiana una verità “storica” di fondamentale importanza, e cioè che l’ordine e l’organizzazione sociale delle primitive comunità umane traggono origine da una violenta crisi risolta per mezzo di un sacrificio. In una varietà straordinaria di forme narrative, le mitologie di ogni luogo del pianeta attestano con una sostanziale e ineludibile unanimità la vicenda davvero sconvolgente che nel caos primordiale, simboleggiato spesso nei miti dalla guerra tra gli dèi, la violenza di tutti contro tutti si risolve improvvisamente nella violenza di tutti contro uno. Nel lento processo che in decine di migliaia di anni ha condotto dagli ominidi all’homo sapiens sapiens il meccanismo vittimario del caprio espiatorio servì da valvola di scarico o parafulmine della violenza. Quando le rivalità mimetiche spingevano i primitivi gruppi umani sull’orlo dell’autodistruzione violenta, il gruppo si coalizzava nell’identificazione di un colpevole, il cui successivo linciaggio riportava “miracolosamente” la pace e la concordia, con un tale beneficio per la comunità che la vittima sacrificale veniva poi divinizzata. È così che nei tempi remoti dell’umanità è sorta la dimensione sacrale, con la sua caratteristica ambiguità: violenta e pacificatrice, malefica e benefica.
Contro l’interpretazione puramente allegorica del mito, proposta nell’antichità dai filosofi greci, e soprattutto contro la lettura razionalista moderna che squalifica il mito come semplice fiction o come pensiero selvaggio e irrazionale, Girard dimostra che nei testi mitologici è nascosta la verità storica, reale, dell’omicidio fondatore. Poiché i narratori sono degli assassini “in buona fede”, il mito afferma la colpevolezza della vittima. Occorre “decostruire” il testo mitico per smascherare la menzogna. Come si vede, il realismo ermeneutico di Girard non è sudditanza ingenua al testo: «Io non esito a contraddire il testo, come noi contraddiciamo i cacciatori di streghe quando ci assicurano che le loro vittime sono veramente colpevoli. Bisogna far saltare in aria il mito nello stesso senso con cui mandiamo all’aria i processi alle streghe. Bisogna far vedere che, dietro al mito, non c’è né il puro immaginario, né il puro avvenimento, ma un resoconto falsato dall’efficacia stessa del meccanismo vittimario».
La ricerca di Girard è approdata a una lettura “antropologica” della Bibbia che fa emergere dal “testo” lo smascheramento della menzogna vittimaria del sacro arcaico: a differenza di tutte le tradizioni mitiche, la Bibbia dichiara infatti, senza eccezioni, l’innocenza delle vittime sacrificali. Dall’uccisione di Abele alla crocifissione di Cristo la violenza umana viene denunciata in tutta la sua cruda verità persecutoria. In un Occidente che accusa il cristianesimo di etnocentrismo culturale, di colonialismo religioso, di intolleranza dogmatica, che ne fa insomma il capro espiatorio dei tempi moderni, la voce di Girard si è alzata con forza per dimostrare che è proprio dal Vangelo che scaturiscono gli atteggiamenti di cui oggi, pur in mezzo a tante contraddizioni, può andar fiero il mondo occidentale: la solidarietà con le vittime, il rispetto delle minoranze, l’apertura nei confronti del diverso, ecc. La violenza umana non ha nulla a che vedere con la convinzione di verità propria della fede, ma nasce nel cuore dell’uomo che si lascia accecare dai desideri mimetici (o con terminologia biblica, dalla triplice concupiscenza) e la via più sicura per fronteggiarla passa per l’imitazione della kénosis di Cristo, «il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce»[7].
Il recente dibattito suscitato in Italia dalla pubblicazione del saggio di M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo[8], mostra che il disincanto scettico postmoderno comincia a dare qualche segno di estenuazione. C’è da augurarsi che le ragioni del realismo siano di nuovo ammesse nella discussione sul “caso serio” della fede, smettendola con il vezzo di “far ridere della verità”, come in parte aveva fatto lo stesso Ferraris sostenendo qualche anno fa che credere in Gesù sia più o meno equivalente a credere in Babbo Natale[9]. Senz’altro le opere di Girard contribuiranno ulteriormente a sdoganare la riflessione filosofica dall’impasse dello scetticismo relativista.




[1] R. Girard, Mensonge romantique et verité romanesque, Grasset, Paris 1961; trad.it., Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965, p. 97.
[2] «La Civiltà Cattolica» 1981, III, pp. 502-506.
[4] «– wir machen einen Versuch mit der Wahrheit! Vielleicht geht die Menschheit dran zu Grunde! Wohlan!» (Nietzsche Werke, ed. crit. a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VII/2, Nachgelassene Fragmente (Frühjahr bis Herbst 1884) Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1974, p. 84 (25 [305]).
[5] Adelphi, Milano 2006, p. 11 (l’originale francese è del 2002: La voix méconnue du réel).
[6] R. Girard, Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con P. Antonello e J. C. de Castro Rocha, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 111.
[7] Fil 2, 6-8.
[8] M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari 2012.
[9] M. Ferraris, Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede?, Bompiani, Milano 2006.

martedì 5 marzo 2013

Libri




Quarta di copertina di Matteo Frasca

     Sguardi di donne inquiete, che hanno il coraggio di guardare dove nessuno oserebbe.
      Nella breve raccolta di racconti e poesie convivono figure di stampo shakesperiano, fredde donne manager odiate dalle loro dipendenti, mamme costrette a perdere i loro figli, figlie a loro volta che sanno incontrare in spazi insoliti le loro madri, mogli che tengono fissi i loro occhi fino all’ultimo sul loro amore di sempre, ragazze che si risvegliano  dal coma e continuano ad inseguire i loro sogni, poetesse che cercano angoli di mondo per liberarsi di tutte i loro versi, inquiline di case distrutte dal terremoto, infermiere che incontrano incredule una cieca  e attempata divinità che gioca con i destini degli uomini. E altre ancora.
      Madri, mogli, figlie, amanti, donne che coltivano la loro inquietudine – sentimento non necessariamente negativo –  per imparare ad amare come possono, in ogni circostanza.
      Con quello straordinario dolore e quella pietas femminile che ad ogni sguardo, ad ogni ritratto raccontato dall’autrice – che sia prosa o lirica – mostra ai lettori uno specchio umano e variegato su cui interrogarsi, senza alcuna presunzione di avere certezze, né risposte consolatorie. 





Prefazione


“L’immagine rispecchia il sacro come un’eco rimanda il suono al luogo d’origine.”1


Novembre 1974. Mi apprestavo a compiere il quinto lustro e la vita mi stava scivolando addosso senza lasciare traccia. Ci accomunava una certa parentela con gli sposi e il fatto che eravamo diversi: io maschio, lei femmina. La guardavo per scoprire qualcosa che mi potesse arpionare a lei e con lei, alla vita. Al tavolo che ci ospitava per il pranzo, lei era seduta quasi di fronte a me e parlava con i ragazzi che le erano seduti accanto. Io la osservavo e ascoltavo senza intervenire, ma il fatto che parlasse con loro un po’ m’infastidiva; non la volevo condividere con gli altri; desideravo l’esclusiva. Era carina, più giovane di me, un’adolescente in una delle sue prime uscite sociali. Mi affascinava il suo modo di tenere a bada quei ragazzi: annullava con arte e con garbo, qualsiasi tentativo di sorprenderla. Evidentemente non gradiva la loro compagnia ed io lo percepivo. Volevo stare con lei; magari con una scusa trovarci soli e parlare di noi tra noi, senza sguardi indiscreti. L’occasione si presentò e ci trovammo fuori in giardino da soli. Lei parlava, io ascoltavo e di tanto in tanto interloquivo con monosillabi di consenso e di sostegno alle sue perifrasi esistenziali. Mi parlava di lei, delle sue sofferenze, dei suoi rapporti con i genitori, del suo sentirsi oppressa, prigioniera, relegata in ruoli che non gradiva; del suo rapporto difficile con il padre, con la scuola e con il lavoro; del suo non sentirsi libera. Era bellissima, più parlava e più mi piaceva. Una ribelle come me. Con una scusa trovai il coraggio di prenderle le mani e tenerle tra le mie. Le toccavo, le accarezzavo; lei se le lasciava trastullare. Sentivo che muoveva docilmente le sue dita chiuse nella mia mano; sentivo il suo abbandono, il suo lasciarsi guidare in quei movimenti docili e minimi delle dita. Si era avvicinata con il suo corpo al mio; la sentivo senza toccarla; i nostri corpi quasi respiravano insieme. Non ne ero ancora consapevole, ma accanto a me c’era la donna della mia vita.

Quella stessa donna che nel novembre del 1974, in un giardino di un ristorante romano, teneva le sue mani nelle mie, mi ha chiesto ora di scrivere la prefazione del suo primo libro. Mi sono sentito importante e, per qualche giorno mi sono crogiolato in un intimo e sottile piacere di vanità che ha orientato i miei tentativi di approccio verso improbabili e assurde elucubrazioni letterarie. Poi sono tornato alla realtà di un libro scritto con amore e che parla d’amore in tutte le forme in cui si è presentato a una donna del nostro tempo. 

«Il romanzo è il luogo della più profonda verità esistenziale e sociale del XIX secolo»[1].
La tensione di Eva non è proprio un romanzo, cui Renè Girard si riferisce per rilevare l’approccio interpretativo basato sul realismo ermeneutico, ma è una raccolta di racconti e poesie estemporanee che indicano il cammino di donna dell’autrice; un cammino visto come “il romanzo” dell’asserzione girardiana. Dall’intimo conflitto esistenziale di una ragazza piena di femminilità, che il padre in cuor suo desiderava fosse maschio (“ah se tua sorella fosse nata maschio, allora sì…”Prima che Lady Macbeth), alla riconciliazione affettiva, amorevole e filiale di una donna matura con lo stesso padre, uomo ormai vecchio, rugoso e sorridente (vola il pensiero mio / alla speranza di guardarti per molto tempo ancora - Ti guardo ora).

Un cammino in cui il sogno e la realtà sono espressi in un’unica unità narrativa. Una narrazione che riflette il vissuto sentimentale ed emozionale dell’autrice. Sogno e realtà dunque, come unica verità, agita e mediata da una donna che non vuole rinunciare alla sua natura femminile nonostante i tempi e le situazioni le chiedano il contrario. Una femminilità preziosa, che sola può condurla a quella “maternità” che pervade e risplende nei componimenti La carezza nell’anima ed  Eri mio figlio, e a quell’unicum coniugale che traspare dal racconto-monologo La valigia.

In questa raccolta l’autrice ha scelto e riunito i suoi componimenti, scritti in tempi e situazioni diverse, (dalla conduzione della casa e della famiglia, all’educazione dei figli, dalla condivisione coniugale, al lavoro professionale, fino alla sua rilevante e personale esperienza teatrale e cinematografica, ecc.). Il risultato è un insieme organico che rappresenta il suo romanzo ovvero la sintesi emozionale di fatti e accadimenti che hanno forgiato la sua personalità.

Lo stile seguito è libero da qualsiasi classificazione e catalogazione; una sorta di diario poetico e narrativo in cui l’esperienza teatrale dell’autrice riaffiora nelle fervide immaginazioni sceniche e nelle trame. Racconti e poesie rese in una sequenza ordinata, non sempre secondo la cronologia in cui sono state scritte, ma secondo i richiami emozionali della sua memoria affettiva; un ordine che segue comunque un filo logico che lega i singoli componimenti e che culmina nell’ultima e dolcissima poesia Ti guardo ora.

La lettura in sequenza di questi componimenti, (che in parte mi erano, singolarmente già noti), rende l’immagine di una donna viva e vera. Una donna le cui gioie, sofferenze e le emozioni vissute, deposte nelle pieghe più recondite della sua anima femminile, hanno formato e caratterizzato la sua poliedrica personalità d’artista, di figlia, di moglie, di mamma… di donna.

Un diario intimo della quotidianità. Un riflesso poetico di un’esistenza femminile del nostro tempo. Un’opera che ci racconta i sogni e i ricordi di una donna, trasfigurati sublimati dalla sua memoria affettiva. Un’opera che è appunto“L’immagine che rispecchia il sacro come un’eco che rimanda il suono al luogo d’origine.”

Rosario Frasca



1
[1] R. Girard, Mensonge romantique et verité romanesque, Grasset, Paris 1961; trad.it., Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965, p. 97.



Risonanze, leggendo Eva in tensione, di Giuliana Mangione 

di Marco Porta

La vida es sueño? In spagnolo sueño significa sonno e sogno. La donna nasce nel sueño di un uomo, da un Adamo immerso nel sonno che sogna l’amore. In questi tempi in cui uomini e donne sembrano non comprendere più la ricchezza della differenza e complementarietà tra il maschile e il femminile, Giuliana ci offre le confidenze oniriche di una Eva in tensione. Una Eva tratta dalla costola-sogno di Adamo – la donna dei sogni – che vorrebbe essere accarezzata nell’anima.

E invece si scontra con la brutalità. Il “bruto” è l’animale e la brutalità nell’uomo significa mancanza di intelligenza e incapacità di controllare gli istinti. Altro che carezze nell’anima! Giuliana ci lascia intravvedere l’immensa sofferenza prodotta dalla violenza, e non solo quella sessuale: Quell’ombra che senza pudore ha preso il mio corpo/ e per sempre mi ha tolto il sorriso (p.17).

Eraclito diceva che la filosofia serve a svegliare i dormienti: nel sonno non si pensa e se non si pensa poi c’è poco da sognare. C’è bisogno di pensiero, di saggezza, di riflessione, per poi fare sogni d’oro. Le prose e le poesie di Giuliana risvegliano dal sonno della ragione. Il suo stile allusivo, che lascia spazio al non detto, dà molto da pensare. Il suo pensiero è poetante, come lo intende Heidegger, è un pensiero poetante che non procede per concetti ma per immagini e porta a sognare. Allora mi libero del concetto,/ dell’intelletto./ Sogno./ Solamente sogno/ e ti rivedo ancora sorridermi/ come allora/ come il tempo che fu. Passato come ore/ presente nell’amore (p. 42). Pensiamo, dunque, e sogniamo l’amore: se fossi donna/ il mondo intero vorrei poter amare (p.31).

Proprio perché c’è amore, c’è anche il dolore. Il dolore della madre a cui muore un figlio. Ha tutto il diritto, questa madre, di gridare alla terra e al cielo. Sì, anche al Cielo: eri mio figlio, mio figlio… non il Suo (p. 22). Eppure, eppure: ogni uomo e ogni donna è anche Suo figlio. È stato Dio a dare ad Adamo il sogno della donna e del suo amore fecondo che dona la vita. Ogni figlio di donna è anche figlio di Dio. Di un Dio che ama e soffre. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3, 16); “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna” (Gal 4, 4); “Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio!". Poi disse al discepolo: "Ecco la tua madre!". E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa (Gv 19, 26-27).

Prego perché mi lasci un posto… accanto al tuo (p. 33). Sì, questa è davvero una bella preghiera, che tutti dobbiamo far nostra. Quel Figlio nato da donna non poteva mentire quando ha detto: “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14, 2-3).

sabato 23 febbraio 2013

Recensioni, articoli,

Recensioni e articoli

L'arte del monologo - Le braci
Un invito alla lettura di questo classico di Sandor Marai con un'attenzione particolare per i suoi momenti narrativi fatti di silenzi e monologhi

Un arcangelo pasoliniano - Quis ut deus
Un'interpretazione pasoliniana dell'ultimo romanzo del famoso sceneggiatore e artista poliedrico Paolo Logli

Zoe la cantastorie - Nata viva
Riflessioni sullo spettacolo teatrale "Zoe la cantastorie", tratto dal libro Nata viva di Zoe Rondini, andato in scena all'Abarico Teatro di Roma, il 31 maggio 2012